Fibra di Carbonio: i primi quarant’anni di Motorsport
Immaginate tutto a un tratto di essere catapultati indietro negli anni Settanta, più precisamente alla fine del decennio. Ebbene, nel mondo della Formula Uno vedreste Gordon Coppuck, progettista del team McLaren, allora governato da Teddy Mayer, storico braccio destro del fondatore Bruce McLaren, alle prese con la M26, erede di quella M23 che aveva permesso al team inglese di conquistare i titoli mondiali nel 1974 e 1976.
Purtroppo però, dal 1977 al 1980, la squadra si renderà protagonista di un filotto impressionante di monoposto fallimentari, proprio mentre le connazionali Willams e Lotus spadroneggiavano nel Circus con le cosiddette wing car, macchine che sfruttavano tantissimo l’effetto suolo (o effetto Venturi) grazie ad un sistema composto da diffusore e minigonne, che andavano a creare una sorta di depressione tra la parte superiore e inferiore della monoposto, che veniva quindi a trovarsi su un binario e che poteva permettersi velocità ben maggiori rispetto alle concorrenti.
A questo punto era chiaro a tutti che la gestione Mayer era giunta al capolinea, e venne infatti sostituito da Ron Dennis, grazie a un rapporto già avviato di quest’ultimo con Marlboro, Title Sponsor della scuderia McLaren. A onor del vero, il cambiamento di rotta è avvenuto grazie alle conoscenze di un nuovo tecnico approdato a Woking, John Barnard, anche se per la verità del tutto nuovo non era, dal momento che aveva collaborato al progetto della McLaren M16 (vincente a Indianapolis nel 1974). Barnard subentrò al dimissionario Coppuck per la progettazione della monoposto in vista della stagione ’81, la prima della nuova era McLaren; egli sfruttò le sue conoscenze americane contattando l’azienda Hercules di Salt Lake City, esperta in Materiali Compositi, alla quale commissionò cinque componenti in carbonio, che una volta giunti in Gran Bretagna vennero curati nell’autoclave e assemblati. Il risultato fu la prima monoscocca in Materiale Composito dell’intera F1.
John Barnard dovette guardare oltreoceano perché i fornitori europei dei team di F1 erano ancora estranei all’ambito dei Compositi, perché infatti acciaio e alluminio la facevano ancora da padroni. Ma allora come mai ebbe questa intuizione? Il progettista aveva l’ambizione di realizzare una scocca molto stretta che permettesse di avere pance più grandi in modo da creare due tunnel Venturi più ampi di chiunque altro, massimizzando l’effetto suolo disponibile. L’ostacolo era costituito dai materiali: con l’alluminio era possibile realizzare un telaio stretto, ma sarebbe stato poco rigido e troppo flessibile, mentre l’acciaio avrebbe assicurato una rigidità torsionale migliore, ma con l’aggiunta di molto peso. La risposta naturale era quindi la Fibra di Carbonio, e così è stato.
Equipaggiata con l’inossidabile Ford Cosworth V8, la McLaren in Carbonio MP4/1, si presenta al GP dell’Argentina 1981 con il pilota John Watson, che ottiene un undicesimo tempo in qualifica, che diventa una quinta posizione in gara fino alla rottura del cambio; a questa prima gara seguì un ulteriore ritiro in Belgio e un ottimo quarto posto a Montecarlo. Terzo a Jarama e secondo a Digione e Montréal, Watson ha confermato in pista quella che era stata la straordinaria rivoluzione pensata dal suo omonimo Barnard. La consacrazione sarebbe poi giunta proprio sul tracciato di casa, a Silverstone, dove la tecnologia dei Compositi è stata in grado di sopperire persino alle difficoltà che il Cosworth aspirato pativa contro i più potenti turbo delle Renault sovralimentate di Renée Arnoux e Alain Prost, che pure avevano fatto la parte del leone sia in qualifica sia nelle prime fasi di gara.
Il campionato 1981 si concluse con un sesto posto nella classifica Costruttori per la McLaren, e con il medesimo risultato in quella piloti per Watson. Tuttavia, quel successo in terra britannica sancì l’inizio di una nuova stagione di successi per il team di Woking, ma fu anche il principio di una svolta epocale per quanto riguarda la tecnica costruttiva delle monoposto di F1, quella che, prendendo in prestito la terminologia utilizzata dagli studiosi di storia, potremmo definire come l’età del Carbonio. L’intuizione di Barnard fu ancora più fortunata dal momento che, facendo un salto temporale fino ai giorni nostri, il Carbonio si è rivelato cruciale nella protezione del pilota molteplici volte a seguito di incidenti che solo pochi anni prima sarebbero potuti risultare fatali.
Montréal 2007, Robert Kubica è protagonista di un incidente spaventoso e, seppur per un millesimo di secondo, subisce una decelerazione di 75G. Ma la scocca della sua BMW resta intatta.
Melbourne 2016, durante la gara, la collisione di Fernando Alonso ed Esteban Gutierrez porta il pilota spagnolo prima a decollare, per poi strisciare sulle protezioni della pista e infine ribaltarsi interrompendo la sua corsa contro le barriere. L’analisi dell’incidente ha riportato anche in questo caso una decelerazione paurosa, pari a 46G. Anche in questo caso, però, nessuna conseguenza grave.
Imola 2021, durante un tentativo di sorpasso Valtteri Bottas e George Russel collidono e le monoposto finiscono la loro corsa contro le protezioni del Tamburello. Il telaio della Mercedes del finlandese è semi distrutto ma il pilota esce sulle sue gambe.
Tanto si è fatto, quindi, e tanto ancora c’è da fare. Ma intanto, chapeau.
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